Gioco all’alba di Arthur Schnitzler (1927) - Contrasto Gioco D'Azzardo - RM6-1
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Gioco all’alba di Arthur Schnitzler (1927)

Gioco all’alba di Arthur Schnitzler (1927)

Il protagonista del racconto è un giovane ufficiale che non ha certo le caratteristiche del giocatore incallito. Si trova a giocare per un’unica volta e lo fa per trovare i soldi da prestare al suo amico, anche lui ufficiale, che altrimenti si sarebbe trovato disonoratolo. Il gioco quindi diviene un modo per trovare in breve tempo il denaro per di cui l’amico ha urgente bisogno. Però, una volta seduto al tavolo da gioco viene preso in un vortice dove vince, perde, rivince, riperde. In più occasioni si ritrova ad avere una cifra che gli consentirebbe di aiutare l’amico e di permettersi lui stesso degli agi, ma non sa fermarsi, nonostante si sia detto più volte che avrebbe dovuto avere prudenza. Solo in un’occasione sembra sul punto di fermarsi ma il caso lo spinge di nuovo al tavolo di gioco. Tutto in una sola notte che avrà per lui conseguenze nefaste.

“Adagino, adagino” rispose Wimmer. “Il console se ne sta seduto come un drago sui suoi soldi, e purtroppo, ormai anche sui miei. 

“Io ho un invito” disse Willi, “rimarrò soltanto un quarto d’ora a sbirciare le carte”.

Entrarono nel caffè. Willi giurò a se stesso che al più tardi entro mezz’ora sarebbe stato di nuovo seduto nel giardino dei Kessner. Aveva spinto parecchio indietro la sua seggiola, mostrando chiaramente di non aver affatto l’intenzione di prendere parte al gioco.

Il console stava spillando, con la sua meticolosità caratteristica, una carta distribuita dal dottor Flegmann, che teneva il banco. Vinse, e il dottor Flegmann estrasse dal portafogli delle banconote nuove.

“Non batte ciglio” osservò Wimmer con ironica ammirazione.

“Battendo ciglio non si combinano i fatti” ribatté freddamente Flegmann con gli occhi socchiusi. Il medico militare Tugut, caporeparto dell’ospedale della guarnigione di Baden, chiamò un banco di duecento fiorini.

Oggi non è roba davvero per me, pensò Willi, e spinse ancora più in dietro la seggiola.

L’attore Elrief un giovane di buona famiglia lasciò che Willi gli guardasse le carte. Puntava piccole somme e, quando perdeva, scoteva il capo con aria perplessa. Tugut in breve aveva già raddoppiato il suo banco. Il segretario Weiss chiese un prestito a Elrief, e il dottor Flegmann estrasse dal portafogli dell’altro denaro. Tugut stava per passere la mano, quando il console, senza rifare i conti, disse: “Banco”. Perse, e cavandosi rapido il denaro dal taschino pareggiò il debito, che ammontava a trecento fiorini. “Ancora banco” disse. Il medico rinunciò, il dottor Flegmann rilevò il banco e distribuì le carte. Willi non ne prese; solo per divertimento, pressato dalle insistenze di Elrief, e “tanto per portagli fortuna” puntò sulla sua carta un fiorino – e vinse. Al giro successivo il dottor Flegmann gettò anche a lui una carta, ed egli non la respinse. Vinse di nuovo, perse, vinse, perse, si spostò con la seggiola più vicino al tavolo in mezzo agli altri, che prontamente gli fecero posto; e vinse – perse – vinse – perse, come la sorte non sapesse ben decidersi. Il segretario dovette recarsi al teatro e dimenticò di restituire al signor Elries il prestito avuto, benché nel frattempo avesse guadagnato più del necessario. Willi era un po’ in vincita, ma per arrivare a mille fiorini ne mancavano ancora circa novecentocinquanta.

A questo punto il console rilevò a sua volta il banco, e dal quel momento tutti sentirono che le cose finalmente si facevano serie.

Del console Schnabel non si sapeva granché. Era stato il signor Weiss a introdurlo nel gruppo degli ufficiali. 

Il console perse. Nessuno si oppose a che egli, contrariamente all’usanza normale, chiamasse subito un nuovo banco e, dopo aver perduto ancora, un terzo. Gli altri vincevano, soprattutto Willi, che ripose nella sua tasca il capitaletto iniziale, centoventi fiorini, ripromettendosi di non toccarli per nessun motivo, Chiamò banco egli stesso; poco dopo, raddoppiata la vincita, rinunciò e, salvo brevi interruzioni, la fortuna continuò ad assisterlo, anche contro i successivi tenitori di banco, che si avvicendarono a ritmo veloce. L’importo di mille fiorini che – per conto d’un altro – si era proposto di vincere, era già superato di qualche centinaio; e quando, poco dopo, il signor Elriel si alzò per recarsi a teatro, a causa di una parte doveva sostenere e della quale, nonostante l’ironico interessamento di Greising, non volle lasciar trapelare nulla, Willi ne approfittò per unirsi a lui. Gli altri si erano immediatamente rituffati nel gioco; e quando Willi si guardò per l’ultima volta dalla soglia, vide che solo l’occhio del console, staccandosi freddo e rapido dalle carte, lo aveva seguito.

Dopo essere stato in un altro luogo Willi decide di tornare di nuovo al bar per giocare.

I giocatori erano sempre lì seduti, formando lo stesso gruppo di prima, quasi non fosse passato neanche un minuto da quando Willi li aveva lasciati. Nessuno mostrò la minima meraviglia allorché Willi spinse di nuovo tra le altre la sua seggiola, che era rimasta vuota; Il dottor Flegmann, che teneva il banco in quel momento, diede una carta anche a lui, come se niente fosse. Nella fretta Willi puntò una banconota più grossa di quanto si era proposto, vinse, e continuò con maggior prudenza; poi la fortuna girò, e venne presto un momento in cui il bigliettone da mille parve in serio pericolo. Che importa pensò Willi, tanta a me non sarebbe rimasto nulla ma invece rincominciò a vincere, non ebbe bisogno di cambiare la banconota, la fortuna gli si mantenne fedele, e alle nove, quando smisero di giocare si trovava in possesso di più di duemila fiorini. Mille per Bogner, pensò, e mille per me. 

Andarono a cena al ristorante Stadt Wien, sedettero nel giardino sotto una frondosa quercia e palarono di giochi d’azzardo in genere e di partite divenute famose al Jockey club per le enormi somme vinte o perdute. “È e rimarrà un vizio” dichiarò il dottore Flegmann serio serio. Tutti risero, solo il tenente Wimmer sembrò voler prendere in malaparte l’affermazione. Quello che poteva essere un vizio per gli avvocati – osservò – era ben lungi dall’esserlo per gli ufficiali. Il dottor Flegmann spiegò cortesemente che era possibile praticare un vizio ed essere nondimeno uomini d’onore; Gli esempi non mancavano. Il console espresse l’avviso che il gioco fosse un vizio solo per chi non si trovava in condizione di pagare i debiti; in tal caso, anzi non era più un vizio, bensì una truffa, e anche delle specie più vili. 

Willi guardò l’orologio: “Oh, purtroppo devo accomiatarmi. L’ultimo treno parte alle dieci e venti”. “Finisca pure il vino,” disse il console “la carrozza la porterà alla stazione”. “oh signor console non posso assolutamente…”.

“Ma sì che puoi” lo interruppe il tenente Wimmer.

Willi svuotò il bicchiere e si alzò “a domenica prossima”…si può benissimo non perdere se si usa prudenza, pensò Willi.

Willi si dirige verso la stazione ma arrivato lì vede il treno che ormai era già partito senza di lui e torna di nuovo al caffè Schopf.

Prudenza, Willi, prudenza, andava dicendo a se stesso, e fece il serissimo proponimento di non rischiare l’intera somma che aveva vinto: al massimo la metà. Per di più, decise di attenersi al sistema Flegmann: cominciare con una piccola puntata, non aumentarla se non dopo aver vinto, e poi non mettere mai tutto in gioco, ma soltanto tre quarti dell’intero ammontare – e così via. 

Il Gruppo dei giocatori era riunito al completo. 

Egli (Il console) non alzò gli occhi quando Willi si avvicinò al tavolo, ma il sottotenente intuì che l’altro s’era subito accorto del suo arrivo.

“perso il treno, eh? Commentò Greising. “Per mezzo minuto” rispose Willi. “Eh già per forza” disse Wimmer, mentre distribuiva le carte.

Willi non disse una parola. Vinse, perse, bevve un bicchiere di cognac, vinse, perse, si accese un’altra sigaretta, vinse, perse.

Il console guardò l’orologio e disse: Alle due e mezzo si chiude, senza remissione”. Erano le due e cinque.

Il console chiamò un banco quale mai si era visto in quelle partite, un banco di tremila fiorini. All’infuori del gruppo dei giocatori e di un cameriere, nel caffè non c’era più nessuno. Il console perse, ma per il momento non rinunciò al banco. Elrief, che si era completamente rifatto, ubbidendo a un’occhiata ammonitrice della signorina Rihoschek si astenne dal gioco. Gli altri, tutti moderatamente in vincita proseguirono con moderata cautela. La posta era ancora per metà intatta. 

“Banco” disse Willi a un tratto, e si spaventò della parola detta e persino della propria voce. Sono ammattito? Pensò. Il console scoprì un nove, gioco fortissimo, e Willi si trovò con millecinquecento fiorini in meno. Ricordandosi del sistema Flegmman, puntò una somma ridicolmente bassa, cinquanta fiorini, e vinse. Che stupido, pensò, avrei potuto riprendermi tutto in un sol colpo! Perché sono stato così vigliacco? “Ancora banco”. Perse. “Un’altra volta banco”. Il console parve esitare. “Cosa ti prende, Kasda?” esclamò il medico militare. Willi rise, e sentì come una vertigine salirgli alla fronte. Era forse il cognac che gli andava alla testa? Sì, evidentemente. Certo s’era sbagliato, neppure per sogno aveva inteso puntare mille o duemila in una volta sola. “Perdoni, signor console, veramente credevo…”. Il console non lo lasciò finire e disse in tono cortese: “Se non sapeva l’ammontare attuale del banco, prendo atto della sua rinuncia”. “Scusi, perché rinuncia signor console?” replicò Willi. “Banco significa banco”. Era davvero lui che parlava? Erano sue parole? Era la sua voce? Se perdeva, tutto andava in fumo: la nuova divisa, la nuova dragona, le cenette in piacevole compagnia femminile; non gli avanzavano più che i mille fiorini per il truffatore, per Bogner – e lui restava il poveraccio che era due ore prima. 

Senza far motto, il console scoprì la sua carta. Nove. Nessuno pronunciò il numero, e tuttavia parve udirne l’eco spettrale nella sala. Willi si sentì la fronte stranamente umidiccia. Diavolo, che ritmo sfrenato! Comunque aveva davanti ancora mille fiorini, anzi qualcosa di più. Temendo gli portasse sfortuna, non volle contarli. Ad ogni modo era ben più ricco di quando, a mezzogiorno, era sceso dal treno. A mezzogiorno di oggi… E del resto, niente lo obbligava a giocare i mille fiorini tutti in una volta! Si poteva ricominciare anche con cento o con duecento. Sistema Flegmann. Solo che, purtroppo, restava pochissimo tempo, sì e no venti minuti. Tutto era silenzio intorno a lui. “Tenente” proferì il console in tono interrogativo. “Ah sì” fece Willi ridendo, e piegò in due il biglietto da mille. “La metà signor console” disse “Cinquecento?”.

Willi annuì. Puntarono tutti gli altri, per la forma. Ma tutt’in giro regnava già un’aria di partenza. Il tenente Wimmer stava in piedi, col cappotto sulle spalle. Tugut si teneva appoggiato al bordo del biliardo. Il console scoprì la sua carta, “Otto”, e il bigliettone da mille era svanito per metà. Scosse la testa, come se vedeste qualcosa di anormale. “Il resto” disse, e rifletté: sono ben calmo, però. Spillò lentamente. Otto. Il console dovette chiedere un’altra carta. Nove. Ed ecco andati i cinquecento, ecco andati i mille. Tutto andato…Tutto? No, aveva ancora i suoi centoventi fiorini, quelli con cui era arrivato a mezzogiorno, e qualcosa in più. Che buffo, a quel punto era davvero un poveraccio come prima. Già, adesso purtroppo doveva smettere, perché non era proprio il caso di rischiare quei pochi fiorini…smettere, nonostante ci fosse ancora un quarto d’ora di tempo. Che disdetta. In un quarto d’ora si potevano vincere cinque mila fiorini con la stessa facilità con cui si erano perduti. “Allora, tenente?” chiese il console. “Mi dispiace molto” rispose Willi con voce acuta, stridula indicando le poche, povere banconote che gli giacevano dinanzi. Curioso a dirsi, aveva gli occhi ridenti, e come per scherzo puntò dieci fiorini su una carta. Vinse. Ne puntò venti e vinse ancora. Cinquanta – e vinse. Il sangue gli salì alla testa, avrebbe pianto di rabbia. Adesso era tornata la fortuna – ma era troppo tardi. E con subitanea, audace decisione si voltò verso l’attore, che era in piedi dietro a lui insieme alla signorina Rihoschek: “Signor von Elrief, vorrebbe usarmi per cortesia di prestarmi duecento fiorini?”. 

“Sono dolentissimo,” rispose gentilmente Elrief stringendosi nelle spalle “ha visto lei stesso, tenente che ho perduto tutto fino all’ultimo centesimo”. Era una bugia, e tutti lo sapevano. Eppure a quanto sembrava, tutti trovavamo perfettamente normale che l’attore Elrief mentisse al signor tenente. Con aria noncurante il console spinse allora alcune banconote verso di lui, apparentemente senza contarle. “Prego, si serva” disse. Il medico militare Tugut tossicchiò in modo udibile. Wimmer ammonì: “Al tuo posto ora smetterei, Kasda”. “Non voglio influenzarla per nulla, tenente” disse Schnabel, premendo ancora lievemente la mano allargata sulle banconote. Willi le afferrò in fretta, facendo poi atto di contarle. “Sono millecinquecento,” disse il console “può starne certo, tenente. Desidera una carta?”. Cos’altro sennò?” rise Willi. “E la sua posta, tenente”. “Beh, non tutto,” esclamò Willi allegro “i poveretti han da fare economia, mille per cominciare”. Spillò, e altrettanto fece il console, con la solita, esagerata lentezza. Willi dovette chiedere un’altra carta, tirò un tre di picche in aggiunta a un quattro di quadri. Il console scoprì: anche lui aveva sette. “Io smetterei” ripeté il tenente Wimmer, e stavolta il monito suonò quasi come un ordine. “Sì,” aggiunse il medico “visto che più o meno hai pareggiato”. Pareggiato! pensò Willi. Lo chiama pareggiare, lui. Un quarto d’ora fa ero un giovane ben fornito; adesso non ho più un soldo, e questo lo chiamano “pareggiare”! Devo informali della faccenda di Bogner? Forse allora capiranno.

Nuove carte gli stavano innanzi. Sette. No, non ne avrebbe chieste altre. Ma neanche il console chiese, si limitò a scoprire il suo otto. Mille perduti, sentì ronzare Willi nel suo cervello. Ma tanto li riguadagno. E sennò fa lo stesso. Mille o duemila, non posso restituirli ugualmente. Ormai è tutt’uno. Ho ancora dieci minuti di tempo. Posso anche rifarmi dei quattro o cinque mila di prima. “Allora tenente?” fece il console. L’eco delle sue parole risuonò cupa nella sala; poiché tutti gli altri tacevano; tacevano udibilmente. Nessuno gli diceva più: “Al tuo posto smetterei”? No, pensò Willi, non osano. Sanno che se smettessi ora sarebbe una pazzia. Ma quanto doveva puntare…? Ormai davanti a sé non aveva che poche centinaia di fiorini. Ad un tratto furono di più. Il console aveva spinto verso di lui altre due banconote da mille. “Si serva, tenente”. E in effetti si servì, ne puntò millecinquecento e vinse. Ora poteva pagare il suo debito e gli restava ancora qualcosa. Sentì una mano posarglisi sulla spalla. “Kasda,” disse dietro di lui il tenente Wimmer “non continuare”. Il tono era reciso, quasi severo. Non sono mica in servizio, pensò Willi, perciò dei miei soldi e della mia vita posso far quel che voglio. E puntò, moderatamente puntò mille fiorini, e scoprì il suo gioco. Otto. Schnabel Stava ancora spillando, adagio, come se disponessero di un tempo infinito. Ma sì, c’era ancora del tempo, nessuno li Recentemente…Bei tempi lontani. Perché poi se ne stavano tutti lì attorno? Come in un sogno. Ah, erano tutti più eccitati di lui; il console scoprì le sue carte. Una regina. Ah, la signorina Rihoschek, e un nove di picche. Dannate picche, gli portavano sempre fortuna. E i mille fiorini emigravano verso il console. Ma non faceva nulla, aveva ancora qualcosa. Oppure era già in completa rovina? Oh, nemmeno per idea…Si vide davanti qualche biglietto da mille. Grandioso, il console. Si capisce, era sicuro che li avrebbe riavuti. Un ufficiale doveva sempre pagare i debiti di gioco. Un signor Elrief. Comunque andasse, rimaneva un signor Elrief, ma un ufficiale, purché si chiamasse Bogner… “Duemila, signor console” Non chiese un’altra carta, aveva un sette. Il console invece dovette chiederne. E stavolta non spillò neppure, tanta fretta aveva, e accanto al suo asso apparve un otto – un otto di picche –, faceva nove, nessun dubbio. Sarebbe bastato anche un otto. E altri duemila emigrarono dal console, e subito tornarono indietro. O erano di più? Tre, quattromila? Meglio non accertarsene, portava male. Oh, il console non lo avrebbe ingannato, e per di più erano tutti lì in piedi a guardare. E poiché ad ogni modo non sapeva più di preciso a quanto ammontasse il suo debito, puntò di nuovo duemila. Quattro di picche. Già, bisognava chiedere ancora. Un sei; sei di picche. Stavolta ce n’era uno di troppo. Il console andava sul sicuro, e non aveva tirato che un tre… E i duemila emigrarono di nuovo – e subito tornarono di nuovo indietro. C’era proprio da ridere. Avanti ed indietro. Indietro e avanti. Toh, eccoli ancora i rintocchi del campanile…la mezz’ora. Ma evidentemente nessuno aveva udito, Tranquillo, il console distribuì le carte. 

E lì davanti c’erano ancora carte. Puntò – quanto, di preciso non lo sapeva. Un pugno di banconote. Era un modo di misurarsi col destino. Otto. Stavolta doveva cambiare.

Non cambiò. Il console scoprì un nove, gettò uno sguardo circolare sull’assemblea, poi spinse la carte da un lato. Willi sbarrò gli occhi: “E allora, signor console?” Ma questi alzò un dito verso l’esterno: “Sono suonate le due e mezzo tenente”. “Come?” gridò Willi fingendosi meravigliato. “Ma non potremmo concederci un ultimo quarto d’ora…?”. Si guardò in giro, come a cercare appoggio. Tutti tacevano. Il segretario commentò rozzamente, come si trattasse di un’inezia: “Eh, stasera il signor tenente è stato proprio scalognato”.

Poi il console si rivolse a Willi, ch’era rimasto a sedere…“Il suo debito, tenente” soggiunse il console con amabilità “ ammonta esattamente a undicimila fiorini”. Willi stava sempre a sedere, si sentiva le gambe pesanti come il piombo. Undicimila fiorini, mica male. Più o meno il suo stipendio di tre o quattro anni, comprese le indennità.

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